Felicia

novembre 2008
Quando il flash la immortalò, Felicia non poteva sapere che quell’espressione eterea, quasi trasognata, quel bagliore diffuso dietro la cornice dei suoi capelli biondi,
sarebbero andati a decorare, sette mesi dopo, la lapide della sua tomba marmorea.

Mattia D'Alessandro

Pasqua 2009
Nonostante il sole fosse già calato, l'ispettore continuava ad indossare i suoi Rayban a goccia.
Il riverbero bianco era ancora più tagliente della luce del sole. Il parabrezza era rigato di lacrime di neve disciolta e i suoni gli arrivavano ovattati; era come guidare in una nuvola di zucchero filato.
Gli era dispiaciuto molto lasciare i suoi. Suo padre era invecchiato. Passava le giornate a far passar passare le giornate. La solitudine si scomponeva nello schermo della televisione. Ma sembrava che questo far niente lo preservasse da una senilità incipiente. Godeva di una discreta salute, aveva più capelli di lui e ancora tutti i suoi denti. Mattia si allenava quattro volte la settimana, usava lozioni anticaduta, si lavava i denti dopo ogni pasto e nel tempo libero leggeva. Era sicuro che sarebbe bastato un mese di inattività per farlo scivolare in uno stato fisico e morale deplorevole. Invece suo padre aveva il buonsenso e la tempra dei contadini, solo che viveva in un condominio di città. Era passato il tempo in cui bisognava avere paura di lui come con un dio, temibile e immortale. La sua ruvidezza, ormai, poteva esercitarla saltuariamente solo su sua moglie. Ma si era diluita, era diventata come una sorta di perpetuo borbottio, un imposizione di regole o veti scaturiti dal broncio. Rinunciava alle feste ma partecipava ai funerali dei parenti. Non andava al ristorante ma accompagnava sempre sua moglie all'ospedale, alla terapia.
Elena, invece, era predisposta a divertirsi di più, uscire, viaggiare. Ma era sprovvista del senso pratico e ragioneristico della vita. Le mancava quella disciplina e quella furbizia che si acquisiscono con l'Istruzione. Aveva solo le elementari. Ma in un certo modo marito e moglie si complementavano; formavano un'unica persona equilibrata. E avevano imparato a condividere, nella stessa casa, la loro reciproca solitudine, come in un gioco di specchi.
Mattia era arrivato per Pasqua. Avrebbe voluto dire tante cose, ma le parole d'affetto venivano risucchiate nel buco nero dell'imbarazzo dei ruoli. Il suo sguardo non si soffermava mai più di due secondi dentro gli occhi di suo padre, che sentiva scottare come la sabbia d'agosto, e sorvolava attento a non inciampare nella bandana sulla testa di sua madre.
Ma forse, la sola cosa che contava, era essere fisicamente li, mangiare, parlare del suo lavoro, guardare la televisione insieme.

Luca

1983
Apro la porta di casa e cado nel buio. E' come quando ci sono i cavalloni e vai sottacqua e non respiri. Solo che è un mare nero.

Scivolo sul pavimento liscio sopra le pattine per non fare rumore e non sporcare. Mi sembra di pattinare. Anche se ci sono stato solo due volte al Palacandy con mia cugina Margherita. Lungo il pavimento ci sono quelle lucine blu. A me mi sembrano tanti marziani in fila che sono atterrati sul pianeta terra. Solo che è marmo, non terra. Allora dovrebbero chiamarlo pianeta marmo forse. Appoggio le dita sulla maniglia di ferro ed entro in cucina. Questo è sugo al tonno. Sento l'odore del pomodoro, quello che mi fa piangere un po' della cipolla. E poi quasi l'odore del mare. Ma il mare è lontano ora.
La mamma è in camera, posso accendere la luce della cappa. Alzo il gomito e prendo il piatto dallo scolapiatti. Il mestolo è nel secondo cassetto a sinistra. Le posate accanto al lavello. Metto la pasta nel piatto. Mangio. Buono. Certo non è la pizza. Ma va bene. E mentre mangio penso di pensare. Ma non so cosa siano. Non sembrano pensieri. Sembrano fantasmi. Come quelli dei film di paura la notte. Qui sembra sempre notte con questo scuro. Questa specie di pensieri si staccano da me come quando lasci andare un palloncino e sale su in aria, o come quando lascio andare la ciambella nel mare e galleggia nell'acqua. Ma il mare è lontano ora


Felicia

Nonostante tutto, quello a cui ancora non si era abituata, era il fatto di essere scelta come le patate al mercato rionale, essere soppesata con lo sguardo che scrutava qualche imperfezione per non cadere in roba di seconda scelta. Ormai non sentiva più i cazzi infilarsi dentro-fuori di lei veloci e rabbiosi, non sentiva più le loro mani ruvide come cartavetra e tozze come zampe di animale, i loro fiati corti, la loro, a volte, affettata gentilezza, il loro finto non trattarla da puttana, anche se erano i peggiori quelli, perché lo facevano più degli altri, chissà cosa pretendevano di comprare oltre un pezzo della sua carne... Erano almeno dieci come lei, tutte dell’est, nell’arco di poche rotonde. Quello, a distanza di due anni e di un aborto, che ancora non mandava giù era il loro, dei clienti, girare, rallentare, squadrare, confrontare prezzi, e magari scartare, passare avanti, oltre, alla ricerca di qualcosa di meglio. Le aveva viste le altre. Belle. Alcune fisici perfetti. Ma nessuna aveva i suoi occhi. E si era illusa. Si era illusa che qualcuno la scegliesse per la profondità verde-marino della sua iride; si fermasse da lei, apposta per lei; invece era solo la prima bancarella che capitava ai clienti per caso, un buco come un altro, solo perché passavano di lì per prima, o erano stanchi di girare. E non ci credeva più, ma era dura cancellare del tutto il sogno del principe azzurro che l’avrebbe tolta dalla strada, la speranza faceva fatica a morire del tutto. E pensare che da piccola voleva fare l’arpista…usare le mani in tutt’altro modo. Che poi da piccola voleva dire quando aveva diciottanni, cioè due anni e un mese fa. Quando ancora si faceva chiamare col suo nome, Felicia. Poi, visto che il destino aveva riservato per lei l’affitto del suo corpo come un motel ad ore, quel nome cominciò a striderle in testa; quando la chiamavano il nome le rimaneva appiccicato addosso come un vestito pulito su un corpo sozzo e sudato, una caricatura, una foto con baffi disegnati a pennarello sulle labbra, era un nome assolutamente fuori luogo. Allora decise di completare la sua spersonalizzazione e cominciò a farsi chiamare Alina, come la maggior parte delle puttane qui nel bresciano.
A differenza delle altre, che si lamentavano sempre e solo della paura, paura dei clienti violenti, paura dei loro protettori, la cosa che la atterriva di più era l’evanescenza della dignità, rimasta presente ma invisibile come una lampadina affogata nella luce del sole. Era diventata qualcosa senza valore, senza forza, senza senso. Fosse diventata la regina di tutte le puttane, fosse passata alla storia come la più grande seduttrice e scopatrice di uomini, quelli che tutti bramavano o semplicemente fosse stata la donna della vita di un uomo, si sarebbe sentita unica, nel bene e nel male. Invece era uguale alle altre, qui al mercato dell’amore a trenta euro.

Delfina

Volevo fare l’avvocato penalista. Un giorno realizzai che l’indipendenza, così facendo, l’avrei raggiunta a quarantanni. Oppure sarei stata condannata al mantenimento economico perenne da parte di qualche mio compagno, stabile o vicendevole che fosse. Quel giorno ebbi la certezza che non potevo più aspettare, non potevo più continuare la convivenza con i miei. Avevo visto un monolocale lungo il naviglio di Corsico: un buco, letto, cucina, sala, salotto, tutto nello stesso locale, ma sarebbe stato mio e io mi ero già innamorata del sapore del futuro della mia vita solitaria. L’ avevo arredato mentalmente, ero stata all’Ikea a comprare le lampade, le mensole i fiori le candele.
Così, abbandonai il progetto della lunga ed estenuante carriera delle cause Nobili e mi avviai a divenire consulente per una grande compagnia di telefonia. L’ufficio, le occhiate lusinghiere dei colleghi alla macchinetta del caffè, lo scambio di mail, la responsabilità dei report, tutto questo mi dava una sorta di stabilità e sicurezza emotivi, senza considerare la somma bonificatami a fine mese: ogni volta che controllavo l’estratto conto on-line mi affiorava un involontario sorriso sulle labbra: quella cifra era lo specchio della mia fatica, il frutto succoso del mio sudore, la sublimazione della mia intelligenza, la galaverna della mia abilità. Con quei soldi realizzai finalmente l’inizio della mia nuova era.
Con Roby non andava male. Era diventato parte integrante della mia famiglia, non quella di provenienza ma quella che ci si costruisce per il futuro. Ero stupita. La mia vita scorreva lungo le caselle del calendario su binari perfettamente oliati. Nessun imprevisto, nessuna imperfezione veniva a stridere la navigazione della mia quotidianità.

Passò un anno. A breve sarebbe arrivato ancora natale. Mi ritrovai un venerdì sera da sola nel mio monolocale. Roby era via con amici. Pensai: fortunatamente. Non avrei sopportato la presenza di nessuno, a parte il tremolio della fiammella della candela. Roby si fermava spesso a dormire da me. E quella sera provai una sorta di liberazione, di respiro, di sollievo, volevo semplicemente affogare nella melassa agrodolce della mia solitudine. Pensai che forse quella era una spia, un campanello d’allarme per farmi riflettere su decisioni che avrei dovuto affrontare a breve. Un matrimonio probabilmente sarebbe stato un’inevitabile evoluzione del rapporto, un lento scivolare nella scelta più logica e normale, ma che forse avrebbe schiacciato un latente e ineludibile desiderio di solitudine selvaggia e di libertà.
Se al secondo bicchiere di bianco la testa cominciava a virare verso altezze sublimi e soffiava nel mio cuore il vento del coraggio, al quarto precipitava il mio umore verso abissi nerastri e cupo-depressivi. Che ci facevo, io, da sola, nel mio monolocale, mezza ubriaca, con la puzza di pesce che ristagnava nella stessa sala, che per areare toccava aprire le finestre che introiettavano dentro aculei di freddo che mi andavano a mordere l’unico centimetro di pelle scoperto sopra il culo? Che ci facevo?
Roby mi aveva chiesto di andare a vivere con lui. Certo. Almeno avrei avuto un letto vero, senza dover srotolare il mio divano tutte le notti e richiuderlo la mattina. In fondo, quasi tutti i momenti liberi li passavo con lui. Potevo stilare un elenco lunghissimo di motivi per il quale stimavo, ammiravo, mi piaceva Roby. Ma forse erano troppi. Troppa oggettività e mi domandavo se l’amore non dovesse semplicemente essere gratuito e irrazionale. Mi mancava l’inconsapevolezza dell’amore.


La filosofia del come interpretare la vita era un’unica amalgama sul come approvvigionare soldi per vivere in modo dignitoso, indipendente, e tornare a fare quello per cui avevo studiato e che sognavo da adolescente. I miei grandi ideali di giustizia e di un mondo migliore si erano schiantati al suolo della ragioneria dei conti a fine mese. Con il mio lavoro guadagnavo bene, ma quei soldi non giustificavano l’abbandono delle mie aspirazioni, l’assenza di pathos nella mia vita. Non erano abbastanza, sarebbe stato come svendere l’anima al diavolo per pochi euro. Avevo iniziato i miei studi pronta a partire per crociate nel mare aperto delle disuguaglianze e delle ingiustizie e mi ero arenata nella melma di scartoffie, codicini e leggiucole che servivano solo a far sopravvivere legalmente la mia Azienda. Gli sguardi dei colleghi ora mi gravavano addosso; scappavo alla macchinetta del caffè e tornavo alla mia scrivania dove internet era il solo strumento che riusciva ad aprire uno spiraglio di evasione e respiro più ampio. Parlottavo con il solito grappolo di colleghi più intimi. Per il resto le vetrate oscurate del palazzone mi nascondeva le stagioni fuori.

Mattia D'Alessandro

Le ruote faticavano a non perdere aderenza. Man mano che si allontanava da Milano, l'autostrada era sempre più innevata. La prima corsia era una processione di Tir, una scia rossa di fanali che illuminavano i cumuli di neve ai lati, alti più di un metro. Mattia procedeva a trenta chilometri all'ora, mantenendo una lunghissima distanza di sicurezza, ascoltando jazz e fumando una marlboro col finestrino mezzo aperto. Il processo, il processo, il processo. Un cadavere in un pozzo a San Vito. Le foto della vittima pubblicate su internet qualche giorno prima del ritrovamento del corpo. Questo è tutto. Speriamo che questa neve non abbiamo fatto troppi danni. Il magistrato De Lorenzo l'aveva chiamato direttamente sul cellulare. "Mi puzza di psicotico. Mi fido di lei. Buon lavoro". Aveva già lavorato per lei, al caso dello stupratore fantasma. E lei aveva avuto fiducia in lui, concordando il permesso per prelevare DNA da tutti i giovani della valle compresi tra i 14 e i 30 anni. Contro le rimostranze generali della popolazione locale, che si rifiutava di credere di avere un mostro in casa. E avevano visto giusto, nonostante il parere opposto dello psichiatra. Mattia sapeva cosa ci voleva. Fatti reali. Prove concrete. Dinamiche da ricreare, verificare, dimostrare al processo. Lui lavora per il processo, il processo lavorava per la giustizia, la giustiza lavorava per gli uomini. E per questo si sentiva utile.

Aurora

Primavera 1960

Altro che uscire con quello scavezzacollo di Filippo. L'aria è così tersa oggi, l'odore asprigno del lago arriva fin quassù e si confonde con quello zuccheroso delle rose. Quest'anno la bordatura delle tre aiuole è stata fatta con le viole del pensiero, le mie preferite.
Ho detto alla mamma che oggi ci sarebbe stato il grande Ingmar Bergman al cinema centrale. E lo spettacolo inizia alle due. Quindi ha preparato 2 toast a testa con prosciutto cotto e mozzarella, un succo d'arancia e via. All'una sono già fuori la villa. Mi ci vorrà una mezzoretta a piedi, ma tanto è così bella e suggestiva Como in questo periodo.